Liliana Cavani: tra sacro e profano

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Come promesso nel post della settimana scorsa, oggi vi parlerò di un’altra importante artista italiana: Liliana Cavani.

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Liliana Cavani sul set

Regista dello scandalo, provocatrice, cattolica del dissenso, intellettuale laica, trasgressiva e “per di più donna”, questi sono alcuni dei tanti appellativi che sono stati usati per descriverla. Nonostante tale ricchezza, è difficile riuscire a “catturarla” in una definizione appropriata.
La stessa Cavani diceva di sé: «mi sento una persona fuori, né apocalittica né integrata», citando il titolo di un famoso e discusso libro di Umberto Eco, e proprio per questo suo modo di essere, fu da subito criticata, attaccata, censurata, amata e odiata allo stesso tempo. A causa dei suoi film, Liliana Cavani fu oggetto di giudizi poco lusinghieri, tanto che qualcuno le consigliò addirittura la psicanalisi.

Cosa hanno, dunque, i film di Cavani di così scandaloso?
Le opere della regista raccontano storie di uomini comuni, i quali, a volte, non riescono a domare i loro istinti primordiali. Inoltre, protagonista di tutto il cinema di Liliana Cavani è l’amore: «Un viaggio nel profondo e un’esperienza indelebile», così la regista definisce questo sentimento. Attraverso il cinema di Cavani emerge la natura ambivalente dell’amore: la grazia e la gravosità, la beatitudine e la dannazione; un’esperienza che coinvolge allo stesso modo sia l’anima sia il corpo.
Si pensi a Francesco – Francesco (1989) – il cui amore si esprime nel desiderio di adesione al Crocefisso e a Dio; oppure a Max e Lucia – Il portiere di notte (1974) – i quali cercano e subiscono un sentimento che, contemporaneamente, è esaltazione e condanna.
Liliana Cavani affermava che «l’amore ha sempre avuto a che fare con il divino», perciò per lei questo sentimento è sempre un accadimento miracoloso in cui il sacro prende letteralmente corpo.
Il luogo della celebrazione assoluta dell’amore, quindi, per Liliana Cavani è il corpo. Esso è il luogo della ribellione, infatti, Francesco lo usa nudo per allontanarsi dal suo stile di vita precedente, fatto di lusso e divertimenti.

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Francesco (1989)

Liliana Cavani ha sempre affrontato le problematiche del soggetto donna con molta passione e attenzione, ma sarà a partire dalla fine degli anni ’80 che dimostrerà una partecipazione sempre più attiva e quasi di protezione nei confronti delle donne. Molta responsabilità in questo, secondo la Cavani, è da attribuire alla Chiesa, che da sempre garantisce il perpetuarsi di una concezione patriarcale del potere. Nel dicembre 2009, la regista intervenne nella vita pubblica italiana firmando, insieme ad Emma Fattorini, l’articolo “Un sinodo sulla donna”, nel quale esponeva proprio questa sua convinzione. Secondo la Cavani, negando alla donna lo status di soggetto indipendente dall’uomo e dalle varie convenzioni sociali, non si fa altro che giustificare l’idea del suo possesso. È a questo punto che può consumarsi la violenza sulle donne, un’emergenza sulla quale la regista ha indagato attraverso il film per la televisione Troppo amore (2011), che racconta un caso di stalking.

Eppure il cinema di Liliana Cavani non è un cinema di o sulle donne, e lei stessa affermò: «Esiste il cinema e basta, fatto da chiunque». La stessa regista, d’altra parte, aveva dichiarato più volte di non essersi mai posta il problema del rapporto tra il suo essere una donna e l’aver scelto di fare un mestiere da uomo. Quello della Cavani, quindi, non è certo un cinema femminista militante, e, forse, è anche per questo motivo che non fu mai particolarmente amata dal movimento femminista.
Il portiere di notte, ad esempio, fu accettato con molta difficoltà dalle femministe dell’epoca, poiché in esso non c’è alcuna parità tra uomo e donna.

Il portiere di notte faceva un bel falò di tutte queste teorie, per raccontare una storia scomoda ma terribilmente verosimile: un uomo che sopraffaceva la donna di cui era già stato l’aguzzino e ne riceveva in cambio amore. Lo scandalo era d’obbligo per un film che andava contro tutto e tutti.
Cit.  Francesco Buscemi, “Invito al cinema”

La donna di Liliana Cavani, dunque, non è mai semplicemente una vittima, ma a volte può essere il “carnefice silenzioso”, o, come la definisce Francesca Brignoli, «un soggetto indipendente, che, senza remore e risparmio, porta avanti una sperimentazione di sé e del mondo». Non è un caso, infatti, che le prime donne di cui ci parla Liliana Cavani nei suoi film, siano le partigiane che liberarono l’Italia dal fascismo, in La donna nella Resistenza (1965).

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